Una fetta di prosciutto, una mozzarella, una goccia di olio nascondono formidabili scontri di interesse tra lobby o governi. Regolamenti comunitari e leggi nazionali. Richiami al tricolore, strategie di marketing, politiche di prezzo. Etichette mute o scritte in ostrogoto. In mezzo a tutto questo i consumatori, con sempre meno soldi in tasca e, proprio per questo, sempre più presi in giro.
L’altro giorno gli attivisti della Coldiretti hanno sospeso per qualche ora la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione europea. Dalle celle frigorifere dei camion hanno scaricato e poi issato come trofei cosce di maiale apparentemente insignificanti. Se non fosse per il timbro stampigliato sulla cotenna: Belgio, Francia, Olanda, Germania. Ecco il teorema dell’organizzazione degli agricoltori: l’industria di trasformazione importa materia prima per confezionare prodotti che poi spaccia come «made in Italy» ingannando il consumatore e bruciando posti di lavoro nei campi e negli allevamenti nazionali.
Nel 2012, secondo i calcoli di Coldiretti, sono state importate 57 milioni di cosce di suino, a fronte di una produzione nazionale di 24,5 milioni. In sostanza due prosciutti su tre provengono da terre lontane. «Ma sono tutti lavorati negli stabilimenti italiani», replica Luisa Ferrarini, presidente di Assica, associazione industriali delle carni e dei salumi, affiliata a Confindustria. Sia Coldiretti che Assica dicono due cose vere. Ma il punto è che sono verità che non si parlano fra loro. I produttori sostengono che i consumatori sceglierebbero con maggiore consapevolezza se conoscessero la provenienza delle materie prime.
Comprerebbero prodotti più costosi? Manca la controprova. In realtà la gran parte dei cittadini-consumatori si comporta in modo contraddittorio. Nei sondaggi mostra di apprezzare «il made in Italy», ma quando si trova davanti agli scaffali guarda il cartellino del prezzo e lì si ferma. Il prosciutto cotto costa dai 9 ai 40 euro al chilo. Una forbice che sembra incredibile. Luisa Ferrarini non ha difficoltà ad ammettere: «L’industria offre una gamma enorme di prodotti. Nel Sud di Italia, per esempio, è richiesto un tipo di prosciutto molto magro ma con un prezzo che non può superare i 12 euro al chilo. Come pensate che si possa produrre un prosciutto del genere, se non importando la materia prima?»